da Repubblica ol - 26 maggio 2008
Bussole - di Ilvo Diamanti
Ma la paura è una cosa seria
E' VERO: c'è una distorsione elevata fra percezione e realtà. Fra
l'insicurezza e i motivi usati, normalmente, per spiegarla. Ormai è quasi
uno slogan che echeggia in ogni discorso. Quasi un riflesso pavloviano.
Proviamo crescente paura della criminalità anche se la criminalità
diminuisce oppure, comunque, non aumenta. Una considerazione banale.
Osservare che non c'è motivo di avere paura. Però se abbiamo paura qualche
motivo c'è. E comunque: abbiamo paura.
Questa è l'unica realtà. Per l'uomo politico, l'amministratore; il
"responsabile" della nostra sicurezza, la soluzione migliore è, dunque, di
assecondare le nostre paure. Fornirci immagini, a modo loro, rassicuranti
per curare la nostra insicurezza. Dirci che non è colpa "nostra", ma degli
"altri". I "microcriminali" ("tanto piccoli che quando ci muoviamo richiamo
di calpestarli", ironizzava Marco Paolini, in una pièce di qualche anno fa:
il "Bestiario Veneto"). Gli immigrati. Gli zingari. Gli altri, che ci
minacciano. Perché violano, anzitutto, la nostra nostalgia. Il nostro senso
di comunità spezzato. Il nostro piccolo mondo schiacciato dal mondo più
grande che grava, incombe su di noi. Valutazioni realistiche e perfino
scontate. Dette così, tra persone colte e ragionevoli, come siamo noi,
possono risultare convincenti. Però vi sfido a fare lo stesso discorso alla
gente che incontrate ai supermercati. All'uscita oppure all'ingresso.
Mendicanti, accattoni, zingari, stranieri. Magari i tossici. Provate a dire
alla "gente comune": sbagliate a temere queste figure. I marginali, gli
ultimi del nostro piccolo mondo. Voi non vi rendete conto, ma in effetti, è
il mondo "in grande" che vi spaventa. La vostra insicurezza è "ontologica",
come direbbe Bauman. O forse Giddens. Nasce da lontano. Dalla crisi dei
riferimenti cognitivi, dei fondamenti di valore, dell'ordine globale. E'
questo che mina il senso della vostra vita. Poi, verificate le reazioni dei
vostri interlocutori. Nel migliore dei casi, vi guarderanno con compassione.
Come dei matti. O dei poveracci. Al pari di quelli che stazionano
all'ingresso ( all'uscita) del supermercato. Dipende dai punti di vista. Il
problema è questo: le spiegazioni più "radicali", quelle che isolano e
individuano i problemi "alla radice" e permetterebbero, quindi, di
"sradicarli", sono anche le più difficile da attuare. Perché richiedono
tempi lunghi. Perché fanno riferimento a ragioni lontane da noi. Nel tempo,
nello spazio. Ma, soprattutto, queste spiegazioni sonno comunque complesse.
Difficili da chiarire e da capire. E quand'anche vi foste riusciti, quando,
cioè, il vostro interlocutore avesse compreso che sì, la fonte della sua
insicurezza non è (solo) lo zingaro, l'immigrato, l'accattone, lo sfigato,
il tossico. Ma è la globalizzazione. Oppure la perdita della comunità. La
scomparsa del territorio.
L'urbanizzazione sconvolgente che sconvolge le menti e le solidarietà.
Quand'anche foste riusciti a chiarirlo bene, al vostro interlocutore - e, se
fate politica oppure un amministratore: al vostro elettore. Poi, che cosa
gli dite? Quale soluzione gli proponete? Di tornare indietro nel tempo? Al
passato tanto bello in confronto a questo presente desolante? Oppure di
distruggere palazzi, condomini e piazze per ricostruire l'ambiente umano di
un tempo? Anche voi, dei "ragazzi della via Gluck", dediti a constatare, in
modo poetico e dolente, che "là dove c'era l'erba ora c'è una città" (e
campi nomadi, baracche, ecc.)?
Questo mi pare il problema maggiore per quanti avversano, giustamente, una
concezione dell'insicurezza che tutto riduce alle "minacce nei confronti
dell'incolumità personale". E diffidano di politiche securitarie che, invece
di curare l'insicurezza, la moltiplicano. Politiche e provvedimenti miopi,
incapaci di vedere (e pre-vedere) oltre la punta del naso. Ma se non hai
soluzioni diverse, concrete, che, comunque, promettano (a torto o a ragione,
non importa) risultati reali e realistici, rischi di passare per un "nane"
(si direbbe dalle parti mie). Tradotto: un idealista un po' sciocco. Un poco
tonto. A cui pochi si affiderebbero per risolvere problemi veri e
drammatici, come la sicurezza.
Per questo occorre prendere le percezioni sul serio. Senza contrapporle alla
realtà. Perché sono più reali della realtà reale. Prendere le percezioni sul
serio. Ma senza crederci seriamente. Senza indossare, anche no, gli stessi
occhiali deformanti. Come fanno molti uomini di governo centrale e locale
che - ormai senza distinzione politica - inseguono le spiegazioni facili e
semplici. Non solo operano per ristabilire la pulizia e la polizia
dell'ambiente, contro zingari, accattoni, tossici e immigrati - naturalmente
irregolari. Per le ragioni che ho scritto: è comprensibile. Ma neppure
credibile che il problema stia lì. Che la causa siano gli "altri". Ma se non
è credibile, meglio non crederci e non farlo credere alla gente.
Le percezioni: sono reali. Vanno prese sul serio. Trattate con rispetto.
Tanto più le persone che esprimono. I "portatori sani" di giudizi
indimostrati. Di pre-giudizi. Vanno prese sul serio. Però fingere di
crederci. Anzi: crederci davvero. Questo no. Rispettare chi crede a una
realtà irreale. Rispettare l'irrealtà come una forma di realtà. Tutto questo
va bene. Ma considerare reale la realtà irreale. Anzi: l'unica realtà
possibile. Dare ragione a chi la considera "vera". Ribadirne le convinzioni
in modo convinto. No. E' troppo. Il divario tra percezioni e realtà, va
ridotto, se possibile. Ma non solo e non necessariamente dalla parte della
percezioni. Meglio lavorare per verificarle. Se necessario: smentirle e
contraddirle. Senza rassegnarsi al "senso comune". Alle verità date per
scontate, quando scontate non sono. Anche se e quando le "nostre" verità
provate sono poco visibili, frustranti da accettare. Se contraddicono le
verità percepite e i miracoli promessi. Se evocano soluzioni lontane e
sgradevoli, perché coinvolgono "noi" e non solo gli "altri".
Se le nostre ragioni appaiono poco ragionevoli alla gente, meglio essere
prudenti e umili. Senza rinunciare alle nostre ragioni, per il timore di
passare da "nane".
Meglio nane che mona.
(26 maggio 2008)